di Rinaldo Falcioni1
L’intreccio si infittisce
Dal «Foglio d’ordini n° 1» in cui Mussolini annuncia il 15 settembre 1943 di riprendere «la direzione suprema del Fascismo in Italia», all’incontro a Rocca delle Caminate con Leandro Arpinati il 7 ottobre, fino alla costituzione del governo collaborazionista con sede a Gargnano (Salò) sulla sponda occidentale del lago di Garda, maturano i destini di tanti fascisti, prevalentemente molto giovani, illusi che fosse possibile evitare la «guerra civile» e rilanciare lo spirito del movimento diciannovista, con venature futuriste, antiborghesi e socialisteggianti.
È il caso di Aristide Sarti, il ventiseienne nominato Reggente del Fascio di Bologna, la sua città – e «sponsor» del rientro nella politica attiva di Arpinati (che non avvenne). Deluso dal clima che stava rapidamente maturando (un clima dove prevalevano i propositi di «vendetta» contro quelli di «riconciliazione» fra gli italiani che vivevano sotto il ricostituito regime di Mussolini, sorvegliato a vista dalle Ss), Sarti lasciò gli incarichi a fine anno per riprendere il servizio militare in prima linea, sui caccia dell’aviazione repubblicana. Gli «entusiasmi e le delusioni del giovane fascista» troveranno la loro nemesi il 2 aprile 1945 sul cielo di Goito, dove il caccia Me 109 «8 bianco» del 2° Gruppo Caccia dell’Anr pilotato da Sarti viene crivellato e abbattuto da un P-47 del 346° Fighter Squadron Usa di scorta a bombardieri. Il Messerschmitt si pianta in un acquitrino e là rimane tutt’oggi – con il pilota al suo posto.
A fine 1943 la situazione a Bologna precipitava, inevitabilmente. Le bombe a mano lanciate da una cellula partigiana la sera del 3 novembre contro un gruppo di sei tedeschi diretti al Fagiano, ristorante di via Calcavinazzi, segnarono l’inizio della resistenza in città contro l’occupante e i suoi collaborazionisti italiani. Il 7° Gap (Gruppo d’azione patriottica) sarà protagonista di azioni particolarmente audaci (come l’attacco al carcere di San Giovanni in Monte, in centro città, con la liberazione dei detenuti), fino alla famosa battaglia di Porta Lame del 7 novembre 1944, un’autentica battaglia urbana fra centinaia di partigiani garibaldini del 7° Gap, contro altrettante centinaia di militi fascisti delle Brigate nere e soldati tedeschi della Feldgendarmerie. Fra i dirigenti del fascismo della X Legio emergono per efferatezza le figure del responsabile regionale del Pfr, Franz Pagliani, e del suo braccio destro Pietro Torri, federale a Bologna dopo l’uccisione di Eugenio Facchini (che era succeduto a Sarti) a fine gennaio 1944. La coppia Pagliani-Torri tirerà le fila del terrore fascista a Bologna e dintorni per tutto il 1944. La loro «estromissione ed eliminazione dalla scena politica» avverrà solo alla fine di quell’anno, «e per iniziativa del generale tedesco Fridolin von Senger und Etterlin poco dopo il suo insediamento a Bologna come comandante militare e della zona d’operazione». Nell’ambito del fascismo bolognese merita di essere ricordata la figura del podestà Mario Agnoli. Fascista convinto, egli vantò sempre di avere amministrato «dalla parte dei bolognesi», e di avere garantito a Bologna il riconoscimento di «città aperta» - da parte dei tedeschi e degli Alleati. La sua conduzione della cosa pubblica fu comunque tale da valergli al momento della Liberazione una sorta di «non luogo a procedere» da parte della nuova amministrazione guidata da Giuseppe Dozza.
Furono tante le formazioni partigiane operanti nella provincia di Bologna.
Fra tutte ricordiamo la Brigata «Stella Rossa», comandata da Mario Musolesi - «il Lupo» - molto attiva nei sabotaggi e negli attacchi a materiali e militari nazifascisti fra Reno e Setta, e quindi oggetto dell’operazione nazifascista di fine settembre 1944, che portò all’eccidio di civili noto come «Strage di Marzabotto». Il massacro riguardò numerosi punti nei comuni di Marzabotto, Monzuno, Grizzana e Vergato; tuttavia, l’epicentro della tragedia fu lungo l’asse fra le chiese di San Martino e di Santa Maria Assunta fino al cimitero di Casaglia e al sottostante oratorio di Cerpiano – la zona di Monte Sole.
I reparti tedeschi che mossero all’attacco alle sei del mattino del 29 settembre erano eterogenei, ma fra di essi spiccò nell’accanimento contro i civili (soprattutto donne e bambini) il battaglione esplorante della 16a Divisione delle SsReichsführer (il titolo di Heinrich Himmler) – battaglione al comando del maggiore Walter Reder. L’ecatombe fu perfezionata nell’arco di alcuni giorni nei paesi e nelle frazioni circostanti. L’obiettivo di colpire i partigiani attraverso l’eliminazione della popolazione civile in mezzo alla quale essi si muovevano era ormai tattica conclamata dell’esercito nazista (e dei collaborazionisti che spesso li guidavano e affiancavano nelle azioni). È lunga la scia di sangue che in tal senso porta a Monte Sole. Alla base c’è il tema della rappresaglia mirata, di cui spesso, ma non sempre, la strage indiscriminata è degenerazione. La logica della rappresaglia consiste nella punizione per un’azione armata subita al di fuori delle regole tradizionali della guerra: per esempio, un’attacco dietro le linee del fronte a obiettivi militari (o anche civili) condotto da personale non riconoscibile nella divisa del nemico ufficiale. In genere sono fucilati (o anche deportati) ostaggi secondo un certo rapporto: classico, quello di uno a dieci (vedi la rappresaglia delle Fosse Ardeatine). Già il 10 settembre 1943, trattando con il colonnello Leandro Giaccone della Divisione corazzata «Centauro» la resa delle truppe italiane che per un giorno e mezzo, a seguito della dichiarazione d’armistizio, avevano rivolto a Roma le armi contro il loro nuovo nemico, il comandante della Wehrmacht in Italia, il feldmaresciallo Albert Kesselring, minacciò «rappresaglie» qualora non fossero state accettate e firmate «entro le quattro del pomeriggio» le precise condizioni imposte dai tedeschi.
I soldati di Roosevelt avevano soprannominato Kesselring «Albert il sorridente» (smiling Albert) per via della sua propensione ad apparire in molte delle foto che lo ritraevano con altri ufficiali, o in mezzo alla truppa, manifestando un’«espressione allegra» – una sorta di dichiarazione di «bonomìa» verso il mondo circostante.
Ma c’era poco da ridere. Il «Comandante supremo delle forze armate germaniche» in Italia proclamò subito alla popolazione di Roma le sue disposizioni, sottolineando che «dispiacerebbe alle truppe germaniche, vedersi costrette a severe misure, nel caso che la popolazione dovesse compiere atti ostili o non dovesse attenersi agli ordini emanati». Kesselring sarà molto più preciso con l’anno nuovo, emanando le sue celebri disposizioni di «copertura» dei militari tedeschi autori di uccisioni ingiustificate, in un ordine di grandezza mai precisato e quindi tendenzialmente illimitato: «Data la situazione attuale un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione […] nel caso di attacchi, è necessario circondare immediatamente i luoghi da cui sono avvenuti: tutti i civili che si trovano nelle vicinanze, senza distinzioni sociali o personali, devono essere arrestati. In caso di attacchi particolarmente gravi, si può anche prendere in considerazione di dare immediatamente fuoco alle case da cui si è sparato […] tutti i comandi responsabili devono usare la massima durezza nelle persecuzioni».
Le disposizioni di Kesselring si susseguirono su questa falsariga, lasciando trapelare lo stato d’animo dei comandanti tedeschi, e forse non solo dei comandanti, verso i partigiani in particolare – e gli italiani in generale. La vicenda di Kesselring, comandande del Gruppo di Armate C della Wehrmacht in Italia (10a e 14a Armata) si concluse in maniera emblematica riguardo al destino di tanti criminali di guerra o comunque responsabili gerarchicamente delle azioni criminali dei loro sottoposti. Egli venne processato per crimini di guerra a fine maggio 1945, a Venezia, da una corte marziale composta da ufficiali inglesi che lo condannò a morte. Anche a seguito dell’intervento di Churchill (che considerava Kesselring nient’altro che un soldato valoroso, da rispettare come tale – sposando quindi la tesi difensiva dello stesso), la pena di morte fu commutata nel carcere a vita, poi a 20 anni. Nel 1952, l’ex feldmaresciallo fu rilasciato «per motivi di salute» e il resto della pena fu condonato «come atto di clemenza». Morì nel 1960, a casa sua nei pressi di Francoforte. Nelle sue memorie, dove la stessa strage di Marzabotto viene giustificata come semplice «operazione militare», egli difese tutto il suo operato in Italia: si sarebbe trattato di un agire finalizzato addirittura ad «evitare il peggio» al paese e agli italiani stessi. Questi ultimi, concludeva Kesselring, avrebbero dovuto «fargli un monumento». È nota la fiera risposta che il partigiano Piero Calamandrei rivolse a questa presunzione.
Prima parte: L'Italia campo di battaglia
Terza Parte: Il melting pot della linea gotica
Il testo di Rinaldo Falcioni è suddiviso in tre parti; costituisce la postfazione al libro di Silvano Monti, “I ragazzi della Linea Gotica”, Pendragon, Bologna 2019.
Rinaldo Falcioni è nato a Bologna nel 1954. E’ direttore scientifico dell’Università Primo Levi di Bologna. Per la casa editrice Pendragon ha di recente pubblicato “Il Cobra sta fumando” e “L’Avventura del Calderaro”.
La CICALA di Orno è la vetrina privilegiata delle iniziative dell’Associazione ORNO TEATRO, con i frequenti rimandi al sito dell’Associazione e al proprio canale YouTube, dove sarà possibile seguire, vivere e condividere gli eventi che abbiamo organizzato: