di Rinaldo Falcioni1
In occasione del 25 Aprile, riproponiamo intergralmente il testo di Rinaldo Falcioni che costitiusce la postfazione al libro di Silvano Monti, “I ragazzi della Linea Gotica”, Pendragon, Bologna 2019.
L’Italia campo di battaglia
Il 10 luglio 1943, appoggiati da un’imponente forza aereo-navale, addirittura superiore a quella dispiegata per lo sbarco in Normandia l’anno successivo, gli Alleati misero piede in Sicilia, dando così inizio alla risalita della penisola che si sarebbe conclusa a fine aprile 1945. L’Italia venne duramente contesa e la popolazione civile, le città e le campagne furono messe spietatamente alla prova, schiacciate per quasi due anni da battaglie, bombardamenti, rappresaglie e carneficine di ogni ordine e grado. Qui presenteremo le caratteristiche dei protagonisti principali di questa tragedia, suddivisi secondo gli schieramenti sul campo.
La sera dell’8 settembre 1943, da New York a Roma rimbalzò sulle frequenze radio l’annuncio dell’avvenuto armistizio fra il Regno d’Italia e gli anglo-americani. Il primo ministro, Pietro Badoglio, dopo 45 giorni di incertezze, sotterfugi diplomatici, faccia di bronzo verso l’alleato tedesco e mosse contraddittorie fino all’ultimo momento, dichiarava forfait, abbandonando Roma e il Paese tutto (in primis le forze armate) nella confusione più completa e trasferendosi/fuggendo con il re e parte della corte a Brindisi. L’ambizione malcelata di Badoglio era che, rinviando (almeno fino al 12) la dichiarazione dell’armistizio (firmato dal generale Castellano nei pressi di Siracusa già il 3) sarebbe riuscito a salvare Roma, ad evitare l’onta della «resa incondizionata» e a guadagnare il titolo di alleato degli anglo-americani – mentre tutto ciò che fu concesso in seguito al neonato Regno del Sud fu il titolo di «cobelligerante».
Il capo fallimentare del governo e della guerra fascista, Benito Mussolini, dimissionato ed arrestato il 25 luglio, fu liberato dall’albergo/prigione di Campo Imperatore dai camerati tedeschi il 12 settembre e condotto in Germania, al cospetto di Hitler.
A Monaco ricevette l’incarico di costituire uno stato collaborazionista, la Repubblica sociale italiana, la cui missione era la vendetta contro il re e i «badogliani» traditori dell’asse Roma-Berlino. Lo schema dei venti mesi successivi era quindi delineato: c’erano ormai due Italie, violentemente contrapposte, ciascuna delle quali destinata al ruolo di comprimaria dei due schieramenti che si contendevano passo a passo l’«italico suolo»: l’esercito tedesco e quello anglo-americano.
I bombardieri alleati avevano cominciato a colpire le città italiane fin dall’inizio della campagna di Sicilia. Bologna, snodo centrale delle comunicazioni ferroviare e sede di importanti industrie meccaniche e di depositi di tutti i tipi, fu oggetto di pesanti attacchi dall’aria: il primo, devastante raid è del 24 luglio, quando cinquantuno «Fortezze Volanti» B-17 provenienti dal Nord-Africa sganciarono 150 tonnellate di esplosivo sulla città felsinea.
Bologna divenne l’oggetto finale della contesa: «a Bologna prima di Natale!» fu l’auspicio, o slogan propagandistico, dell’offensiva alleata nell’estate del 1944 – un obiettivo non realizzato entro quel termine temporale, cosa che permise al comandante tedesco, Albert Kesselring, di vantare i pregi della propria strategia nella «battaglia difensiva» sulla Linea Gotica della seconda metà del 1944.
Nella prima metà dello stesso anno, l’obiettivo era stata Roma. Anche in questo caso la Wehrmacht oppose una resistenza accanita: «Tutte le strade portano a Roma», ricordavano i giornalini divisionali della V Armata Usa - «ma tutte le strade sono minate!» aggiungeva sconsolato il fante americano nell’inferno della Linea Gustav, a Cassino e dintorni. Gli scontri all’ombra dell’antico monastero benedettino (poi raso al suolo dai bombardieri americani per il sospetto che ospitasse osservatori d’artiglieria tedeschi, data la sua posizione a picco sulla Valle del Liri e la statale n° 6 «Casilina») furono terrificanti e durarono mesi, da gennaio allo sblocco di maggio - sblocco che consentì al comandante della V Armata, Mark Wayne Clark, di entrare trionfalmente a Roma, primo soldato dopo il bizantino Belisario (nel secolo VI, e si trattava anche allora di una guerra «gotica») a prendere la città da sud. Si è molto scritto su questa fretta di Clark, adombrando le ragioni militari con quelle di scena. Fin dalla Sicilia, infatti, era evidente la rivalità fra generali alleati per guadagnare il titolo di liberatore di città. La rivalità fra due «prime donne», Patton contro Montgmomery, palesata di fronte a Palermo e a Messina (in entrambi i casi il trofeo andò a Patton, «generale d’acciaio») fu seguita da quella fra Clark e il britannico Oliver Leese, succeduto a Montgomery al comando dell’VIII armata, sull’obiettivo più ambito, e cioè la conquista della «città eterna». Si dice che se Clark avesse avuto meno fretta di farsi fotografare sui Fori imperiali forse sarebbe riuscito a tagliare la strada alla 10a Armee tedesca del generale Vietinghoff in ritirata, attorno a Valmontone: un caso classico di would have been history.
Due giorni dopo la liberazione di Roma avvenne lo sbarco in Normandia. All’epoca, due terzi delle forze tedesche erano schierate contro l’Urss (160 divisioni circa), una sessantina in Francia e una ventina (parecchie a ranghi ridotti) in Italia. Secondo lo storico inglese Basil Liddell Hart, «l’impegno italiano sottrasse allo sforzo bellico globale degli alleati una quantità di risorse di gran lunga maggiore di quella che i tedeschi impiegarono per resistere in Italia». E per lo storico americano David Kennedy, la campagna d’Italia «fu uno spettacolo secondario inutilmente dispendioso…una guerra d’attrito i cui costi non erano giustificati da nessuno scopo difendibile, sul piano militare o politico». Naturalmente, il dibattito sul pro e il contro della scelta alleata di aprire un fronte europeo di alleggerimento di quello a est sbarcando in Sicilia è cospicuo. Atkinson ricorda che «di solito le critiche si scontrano con una domanda fastidiosa: Dove se non in Italia?» .
Dunque, dopo la conquista di Roma, il fronte italiano divenne effettivamente secondario rispetto alla Normandia. Fu depotenziato, al punto che a metà agosto numerose divisioni vennero trasferite in Provenza come valvola di sfogo per la pressione tedesca a nord della Francia. Anche per questa scelta, che rispecchiava un dissidio di fondo in seno ai comandi alleati, fra Roosevelt e Churchill, sui rapporti con l’Urss e sulla sistemazione geopolitica finale dell’Europa liberata dal nazifascismo, le due armate alleate si ritrovarono allo slancio appenninico di fine agosto con forze insufficienti allo scopo strategico – giungere sulla via Emilia e arrivare a Bologna. «E venne un altro triste inverno, un altro sciagurato stallo, durante il quale la campagna militare, scrive la storia ufficiale dell’esercito statunitense, “si ridusse a una vasta operazione di contenimento”. Le armate del maresciallo Harold Alexander [il 15° Gruppo di Armate, composto dalla V Usa e dall’VIII Britanica] divennero sempre più poliglotte, con l’aggiunta di brasiliani, belgi, ciprioti ed ebrei della Palestina, oltre che di due nuove unità statunitensi, una composta da neri e l’altra da giapponesi di seconda generazione naturalizzati. I tedeschi erano ormai ridotti a trainare i camion con i buoi; ogni soldato di pattuglia che riportasse una tanica di carburante veniva premiato con mille sigarette. Eppure la linea Gotica non crollò fino ad aprile del 1945 e la capitolazione avvenne venti mesi dopo lo sbarco alleato a Reggio Calabria.
L’intreccio si infittisce
Dal «Foglio d’ordini n° 1» in cui Mussolini annuncia il 15 settembre 1943 di riprendere «la direzione suprema del Fascismo in Italia», all’incontro a Rocca delle Caminate con Leandro Arpinati il 7 ottobre, fino alla costituzione del governo collaborazionista con sede a Gargnano (Salò) sulla sponda occidentale del lago di Garda, maturano i destini di tanti fascisti, prevalentemente molto giovani, illusi che fosse possibile evitare la «guerra civile» e rilanciare lo spirito del movimento diciannovista, con venature futuriste, antiborghesi e socialisteggianti.
È il caso di Aristide Sarti, il ventiseienne nominato Reggente del Fascio di Bologna, la sua città – e «sponsor» del rientro nella politica attiva di Arpinati (che non avvenne). Deluso dal clima che stava rapidamente maturando (un clima dove prevalevano i propositi di «vendetta» contro quelli di «riconciliazione» fra gli italiani che vivevano sotto il ricostituito regime di Mussolini, sorvegliato a vista dalle Ss), Sarti lasciò gli incarichi a fine anno per riprendere il servizio militare in prima linea, sui caccia dell’aviazione repubblicana. Gli «entusiasmi e le delusioni del giovane fascista» troveranno la loro nemesi il 2 aprile 1945 sul cielo di Goito, dove il caccia Me 109 «8 bianco» del 2° Gruppo Caccia dell’Anr pilotato da Sarti viene crivellato e abbattuto da un P-47 del 346° Fighter Squadron Usa di scorta a bombardieri. Il Messerschmitt si pianta in un acquitrino e là rimane tutt’oggi – con il pilota al suo posto.
A fine 1943 la situazione a Bologna precipitava, inevitabilmente. Le bombe a mano lanciate da una cellula partigiana la sera del 3 novembre contro un gruppo di sei tedeschi diretti al Fagiano, ristorante di via Calcavinazzi, segnarono l’inizio della resistenza in città contro l’occupante e i suoi collaborazionisti italiani. Il 7° Gap (Gruppo d’azione patriottica) sarà protagonista di azioni particolarmente audaci (come l’attacco al carcere di San Giovanni in Monte, in centro città, con la liberazione dei detenuti), fino alla famosa battaglia di Porta Lame del 7 novembre 1944, un’autentica battaglia urbana fra centinaia di partigiani garibaldini del 7° Gap, contro altrettante centinaia di militi fascisti delle Brigate nere e soldati tedeschi della Feldgendarmerie. Fra i dirigenti del fascismo della X Legio emergono per efferatezza le figure del responsabile regionale del Pfr, Franz Pagliani, e del suo braccio destro Pietro Torri, federale a Bologna dopo l’uccisione di Eugenio Facchini (che era succeduto a Sarti) a fine gennaio 1944. La coppia Pagliani-Torri tirerà le fila del terrore fascista a Bologna e dintorni per tutto il 1944. La loro «estromissione ed eliminazione dalla scena politica» avverrà solo alla fine di quell’anno, «e per iniziativa del generale tedesco Fridolin von Senger und Etterlin poco dopo il suo insediamento a Bologna come comandante militare e della zona d’operazione». Nell’ambito del fascismo bolognese merita di essere ricordata la figura del podestà Mario Agnoli. Fascista convinto, egli vantò sempre di avere amministrato «dalla parte dei bolognesi», e di avere garantito a Bologna il riconoscimento di «città aperta» - da parte dei tedeschi e degli Alleati. La sua conduzione della cosa pubblica fu comunque tale da valergli al momento della Liberazione una sorta di «non luogo a procedere» da parte della nuova amministrazione guidata da Giuseppe Dozza.
Furono tante le formazioni partigiane operanti nella provincia di Bologna.
Fra tutte ricordiamo la Brigata «Stella Rossa», comandata da Mario Musolesi - «il Lupo» - molto attiva nei sabotaggi e negli attacchi a materiali e militari nazifascisti fra Reno e Setta, e quindi oggetto dell’operazione nazifascista di fine settembre 1944, che portò all’eccidio di civili noto come «Strage di Marzabotto». Il massacro riguardò numerosi punti nei comuni di Marzabotto, Monzuno, Grizzana e Vergato; tuttavia, l’epicentro della tragedia fu lungo l’asse fra le chiese di San Martino e di Santa Maria Assunta fino al cimitero di Casaglia e al sottostante oratorio di Cerpiano – la zona di Monte Sole.
I reparti tedeschi che mossero all’attacco alle sei del mattino del 29 settembre erano eterogenei, ma fra di essi spiccò nell’accanimento contro i civili (soprattutto donne e bambini) il battaglione esplorante della 16a Divisione delle SsReichsführer (il titolo di Heinrich Himmler) – battaglione al comando del maggiore Walter Reder. L’ecatombe fu perfezionata nell’arco di alcuni giorni nei paesi e nelle frazioni circostanti. L’obiettivo di colpire i partigiani attraverso l’eliminazione della popolazione civile in mezzo alla quale essi si muovevano era ormai tattica conclamata dell’esercito nazista (e dei collaborazionisti che spesso li guidavano e affiancavano nelle azioni). È lunga la scia di sangue che in tal senso porta a Monte Sole. Alla base c’è il tema della rappresaglia mirata, di cui spesso, ma non sempre, la strage indiscriminata è degenerazione. La logica della rappresaglia consiste nella punizione per un’azione armata subita al di fuori delle regole tradizionali della guerra: per esempio, un’attacco dietro le linee del fronte a obiettivi militari (o anche civili) condotto da personale non riconoscibile nella divisa del nemico ufficiale. In genere sono fucilati (o anche deportati) ostaggi secondo un certo rapporto: classico, quello di uno a dieci (vedi la rappresaglia delle Fosse Ardeatine). Già il 10 settembre 1943, trattando con il colonnello Leandro Giaccone della Divisione corazzata «Centauro» la resa delle truppe italiane che per un giorno e mezzo, a seguito della dichiarazione d’armistizio, avevano rivolto a Roma le armi contro il loro nuovo nemico, il comandante della Wehrmacht in Italia, il feldmaresciallo Albert Kesselring, minacciò «rappresaglie» qualora non fossero state accettate e firmate «entro le quattro del pomeriggio» le precise condizioni imposte dai tedeschi.
I soldati di Roosevelt avevano soprannominato Kesselring «Albert il sorridente» (smiling Albert) per via della sua propensione ad apparire in molte delle foto che lo ritraevano con altri ufficiali, o in mezzo alla truppa, manifestando un’«espressione allegra» – una sorta di dichiarazione di «bonomìa» verso il mondo circostante.
Ma c’era poco da ridere. Il «Comandante supremo delle forze armate germaniche» in Italia proclamò subito alla popolazione di Roma le sue disposizioni, sottolineando che «dispiacerebbe alle truppe germaniche, vedersi costrette a severe misure, nel caso che la popolazione dovesse compiere atti ostili o non dovesse attenersi agli ordini emanati». Kesselring sarà molto più preciso con l’anno nuovo, emanando le sue celebri disposizioni di «copertura» dei militari tedeschi autori di uccisioni ingiustificate, in un ordine di grandezza mai precisato e quindi tendenzialmente illimitato: «Data la situazione attuale un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione […] nel caso di attacchi, è necessario circondare immediatamente i luoghi da cui sono avvenuti: tutti i civili che si trovano nelle vicinanze, senza distinzioni sociali o personali, devono essere arrestati. In caso di attacchi particolarmente gravi, si può anche prendere in considerazione di dare immediatamente fuoco alle case da cui si è sparato […] tutti i comandi responsabili devono usare la massima durezza nelle persecuzioni».
Le disposizioni di Kesselring si susseguirono su questa falsariga, lasciando trapelare lo stato d’animo dei comandanti tedeschi, e forse non solo dei comandanti, verso i partigiani in particolare – e gli italiani in generale. La vicenda di Kesselring, comandande del Gruppo di Armate C della Wehrmacht in Italia (10a e 14a Armata) si concluse in maniera emblematica riguardo al destino di tanti criminali di guerra o comunque responsabili gerarchicamente delle azioni criminali dei loro sottoposti. Egli venne processato per crimini di guerra a fine maggio 1945, a Venezia, da una corte marziale composta da ufficiali inglesi che lo condannò a morte. Anche a seguito dell’intervento di Churchill (che considerava Kesselring nient’altro che un soldato valoroso, da rispettare come tale – sposando quindi la tesi difensiva dello stesso), la pena di morte fu commutata nel carcere a vita, poi a 20 anni. Nel 1952, l’ex feldmaresciallo fu rilasciato «per motivi di salute» e il resto della pena fu condonato «come atto di clemenza». Morì nel 1960, a casa sua nei pressi di Francoforte. Nelle sue memorie, dove la stessa strage di Marzabotto viene giustificata come semplice «operazione militare», egli difese tutto il suo operato in Italia: si sarebbe trattato di un agire finalizzato addirittura ad «evitare il peggio» al paese e agli italiani stessi. Questi ultimi, concludeva Kesselring, avrebbero dovuto «fargli un monumento». È nota la fiera risposta che il partigiano Piero Calamandrei rivolse a questa presunzione.
Il melting pot della guerra gotica
Il 14 aprile 1945, in una Vergato rasa al suolo entravano finalmente i carri Sherman della 1a Divisione corazzata Usa. Era scattata l’operazione finale, in codice Grapeshot (Mitraglia), concepita come un «uno-due» pugilistico: l’VIII Armata doveva travolgere le forze tedesche su Santerno e Sillaro (piano Buckland), mentre la V avrebbe attaccato a ovest della statale della Futa per sfociare nell’area padana (è il piano Craftsman). Così, il IV Corpo d’Armata americano si mosse, inesorabile. Sulla riva sinistra del Reno operavano anche i brasiliani della Feb, a braccetto con la potente 10a Divisione da Montagna del generale George Hays. Sulla riva destra, la 6a Divisione corazzata sudafricana si era spinta più a nord, verso le pendici del Monte Stanco e del Salvaro, già nell’autunno precedente. Adesso era nel lucchese, in riserva d’Armata.
Dalla foto di questo settore si vede dunque il carattere «multietnico» dell’esercito alleato. E la stessa considerazione vale per quello tedesco: a parte gli italiani, che combatterono in entrambi gli schieramenti, sotto la croce uncinata troviamo elementi dell’est europeo cooptati a vario titolo fino a formare intere divisioni, come i turkmeni e gli ucraini.
Il settore destro dello schieramento alleato, quello dell’VIII Armata britannica era particolarmente variegato in tal senso: Churchill attinse a man bassa alle risorse umane dell’intero Commonwealth.
Osserviamo il fronte alleato dalla parte adriatica, alla data del 25 agosto 1944, all’inizio cioè dell’offensiva romagnola – la «battaglia di Rimini». Troviamo un intero Corpo d’armata canadese (due divisioni e una brigata); una brigata di montagna greca; tre divisioni indiane; una divisione neozelandese; il Corpo polacco (due divisioni e una brigata). Sudafricani, brasiliani, nippo-americani, si aggiungono al quadro spostandoci più a ovest, nel settore della V Armata. E lo schieramento di Alexander aveva perso dieci giorni prima l’intero Corpo francese del generale Juin, composto prevalentemente da truppe coloniali (i famigerati goumiers, soldati marocchini che non lasciarono un buon ricordo fra le popolazioni della Ciociaria), trasferito in Provenza. Anche nelle formazioni partigiane c’erano elementi stranieri, anzitutto parecchi prigionieri di guerra dei tedeschi fuggiti dai treni durante il trasporto nei campi di concentramento. Nella brigata Stella Rossa, i «russi di Karaton» offrirono la più strenua resistenza in località Caprara alle Ss di Reder, mentre l’indiano Sad dava un tocco esotico alla formazione. Non vanno poi dimenticati quei disertori tedeschi che, anziché arrendersi agli Alleati, sceglievano di unirsi ai partigiani.
I polacchi del generale Anders ricevettero l’onore di entrare per primi a Bologna, la mattina del 21 aprile. I tedeschi si erano ritirati poche ore prima, nell’illusione di potere ancora frapporre al nemico l’ennesima linea di resistenza. Le ultime, lungo i fiumi a est di Bologna avevano assunto nomi di donna, come Irmgard (sul Senio), Laura (Santerno), Paula (Sillaro), fino al meno romantico Gengis Khan, la linea sull’Idice, nome terribile a cui tuttavia corrispose il crollo finale. La gioia della popolazione bolognese è ben documentata dalle foto di Edo Ansaloni che con il suo obiettivo colse l’ingresso degli Alleati da Strada Maggiore.
Polacchi, americani (statunitensi della 34a Divisione di fanteria Red Bull), bersaglieri italiani con l’elmo a scodella inglese e mitra Thompson americano a tracolla (reduci dall’impresa di Poggio Scanno, sopra Idice), mezzi corazzati, jeep, fiaschi di vino che passano da una mano all’altra: Ansaloni documenta una festa in cui predomina, quasi palpabile, l’allentamento della grande tensione che per lunghi mesi aveva stretto Bologna – e l’Italia tutta – nella morsa della paura e del dolore.
Rinaldo Falcioni è nato a Bologna nel 1954.
E’ direttore scientifico dell’Università Primo Levi di Bologna.
Per la casa editrive Pendragon ha pubblicato “Il Cobra sta fumando” e “L’Avventura del Calderaro”.
Per saperne di più delle attività di Orno Teatro si rimanda al sito dell’Associazione, o al proprio canale YouTube.