L’Associazione ORNO TEATRO presenta il numero “zero” di una nuova iniziativa di divulgazione culturale.
Un po’ rivista elettronica, un po’ semplice newsletter a proporre interventi, privi di ogni attualità, dove passione e talento provano a combinarsi tra loro nel modo più virtuoso.
Parleremo di musica, di teatro, di cinema, di letteratura; proveremo a sorriderci sopra e raccontare la storia e le storie del nostro territorio, la città di Bologna, ma non ci limiteremo a questo: allarghemo lo sguardo dove ci sarà interesse e curiosità.
Vedremo se ne saremo capaci.
Frank Zappa: “scrivere di musica è come ballare di architettura”.
Sarà la vetrina privilegiata delle iniziative dell’Associazione ORNO TEATRO, con i frequenti rimandi al sito dell’Associazione e al proprio canale YouTube, dove sarà possibile seguire, vivere e condividere gli eventi che organizziamo.
In questo primo numero “zero”, scrivono di musica i nostri Tiziano Barbieri e Marco Coppi, Eros Drusiani ci ricorda quanto i bolognesi siano tipi davvero precisi, mentre Rinaldo Falcioni racconta la storia drammatica del nostro territorio con le vicende dell’ultimo conflitto mondiale.
E’ un momento cupo; l’emergenza sanitaria ci impedisce di stare dove sarebbe più logico e naturale: in un palco, di sera a ringraziare pubblico per avere pagato il biglietto e magari, al termine, ricevere applausi.
Un piccolo contributo, questo di ORNO TEATRO, speriamo a frenare l’impazienza, attendendo ancora il corso degli eventi e l’efficacia dei vaccini. E qui è importante stare in fila; come si faceva una volta, non tanto tempo fa, alla cassa del teatro..
Sud
di Tiziano Barbieri1
Tardo pomeriggio . Mancano tre giorni alla prima prova della mia maturità liceale.
Il Ford Transit, azzurro, 1600 c.c a benzina , 110 Km di velocità massima (120 in discesa) mi aspetta sotto casa, Via Saffi n. 63, Bologna.
Si va a Maida, provincia di Catanzaro.
Mai stato più a sud di Firenze.
A1 per Roma , Raccordo Anulare, Napoli, Salerno sulla vecchia A3. Superata Battipaglia vedi un cartello, è ancora lì: Reggio Calabria, km. 440.
L’Italia è lunga, non l’avresti mai detto.
Uscita Lagonegro. Undici ore da Bologna.
Una statale scende dall’alto delle montagne e ti conduce al mare, sulla statale tirrenica. La strada è un serpente a sonagli.
Sono le quattro, cinque, del mattino. Estate, la luce arriva presto, niente ora legale. Maratea, chissà cos’altro, non sappiamo nemmeno dove siamo.
Cartello stradale: Praia a Mare.
La strada principale costeggia il mare, difficile prenderne un’altra, e comunque a diciotto anni le strade le scegli per intuito, quasi sempre sbagliato.
Ma la spiaggia no. E’ di sassi piccoli, rotondi, gentili sotto le dita dei piedi.
Non c’è nessuno su quella spiaggia: nel 1970 gli ombrelloni di Rimini a Praia sono ancora un sogno.
Usciamo dalla strada. Siamo nel centro del paese, questo lo comprendiamo, ma non c’è nessuno intorno, pertanto il Transit molla l’asfalto e si avventura sui sassi.
Siamo tutti increduli, eccitati: abbiamo trascorso infanzia e adolescenza scavalcando lettini e corpi umani per arrivare alla riva mentre qui portiamo i pneumatici fino a quelle ondine del primo mattino.
L’acqua è più trasparente del cristallo.
Davanti a noi un’isoletta a poche centinaia di metri dalla riva.
Più avanti nel tempo ne avrei conosciuto il nome: Isola di Dino.
Tutti fuori dal pullmino; siamo in cinque.
L’età è quella. Non abbiamo costumi da bagno: chi poteva immaginarlo?
Ci tuffiamo nel mare di Praia.
In quel preciso istante ho capito che quello di musicista sarebbe stato il mestiere della mia vita.
Non è stata un’esecuzione particolarmente intensa, un assolo perfetto o gli applausi di un pubblico a determinarmi: è stato un tuffo nel mare di Praia.
La mia condizione sociale, figlio di piccoli impiegati, non di avvocati o professori universitari o imprenditori di successo, tanto meno di musicisti, difficilmente mi avrebbe concesso quello che desideravo dalla vita.
Certo, mi sarei laureato, sarei entrato in un ufficio, al sicuro, per restarci indefinitamente. Quel tuffo era al contrario la visione di un’altra storia, dell’avventura pronta ad aspettarmi.
Non ricordo chi di noi si è assunto la responsabilità, o l’irresponsabilità di guidare per gli ultimi 150 Km; di certo non io: non ricordo nemmeno come siamo arrivati il quel paese.
Il mattino successivo, dopo aver suonato alla nostra prima festa di piazza , si ritorna oltre gli Appennini.
Di tutti i momenti di un viaggio quello del ritorno è sempre stato per me il peggiore. Salito in casa verso le cinque del mattino, dopo un paio d’ore del sonno migliore della mia vita mi rimetto verticale, salgo sul Maggiolone comprato di sesta mano un anno prima, ancora senza patente, e volo al Liceo per la prova di Italiano.
Scelto, ovviamente, il tema più generico, scritte le due colonne e mezzo standard del foglio protocollo, consegnato alle dieci e trenta sotto gli occhi increduli del commissario. “Come, consegni ora? Hai altre tre ore a disposizione”. “Lo so, signora professoressa, ma ho fatto”.
Scrivevo bene, pochi dubbi. Quelli sarebbero venuti dopo.
Respect !
di Marco Coppi2
“Spesso la musica mi prende come un mare” inizia così “La musique”, una bella poesia di Charles Baudelaire.
Da bambino, avrò avuto quattro o cinque anni, su una terrazza d’estate venivo forse colto da un’emozione del genere, ascoltando mio padre alla chitarra e mia madre al canto.
Un “incanto” appunto che credo sia la ragione primaria del mio rapporto con la musica, quello stupore e quell’attrazione verso ciò che raccontano i suoni nella loro astrazione linguistica e nella precisa e potente capacità di sollecitare emozioni.
Un mare, quello musicale, in cui mille fiumi riversano ogni genere di linguaggi, di culture, di sintassi sonore antiche, moderne o contemporanee che dir si voglia.
Ora però, detto questo, trovo che ci sia un problema da rilevare: non c’è rispetto per la musica, sì, non c’è rispetto.
So che potrà sembrare strano, o esagerato, o estremista ma la musica andrebbe eliminata dal contesto economico, andrebbe liberata da tutto quello che regola i rapporti di produzione e di fruizione dei beni materiali e immateriali, insomma dal sistema.
So che una cosa del genere non è possibile, non si può rifondare radicalmente l’esistenza di una parte del sistema senza che anche tutto il resto muti, ma voglio qui dire che troppe e troppo diverse dal “vero” sono le ragioni per cui oggi tanta musica è prodotta e diffusa.
Non si tratta di purismo ne di moralismo naturalmente, si tratta forse di rapporto etico con la musica, certamente si tratta di una richiesta di attenzione su quale è il portato e il significato della creazione musicale.
A tutti i livelli, dalla musica così detta di nicchia a quella superpopolare e/o supercommerciale, nella stragrande maggioranza dei casi ciò che determina la sua produzione e soprattutto la sua diffusione è fissato da regole di mercato che non tengono minimamente conto della qualità (nel senso di specifica proprietà) della sua natura, della sua sostanza, tutti (quasi tutti) sono mossi soltanto dalla certa o probabile o presunta vendibilità del prodotto e non parlo, o non solo, del mercato discografico che ormai è (quasi) totalmente defunto, parlo dei concerti, della musica dal vivo.
Anche chi si occupa di musiche che hanno un seguito molto limitato deve inevitabilmente fare i conti con la vendibilità della cosa. E’ normale certo, è così per tutto, ma in questo modo si ingabbia l’arte musicale dentro logiche ingessate e tossiche che fanno male proprio a lei, alla musica e, naturalmente, a chi la ama.
Non si è mai veramente liberi di scegliere, per esempio come programmatori di cartelloni musicali o anche come interpreti ciò che viene ritenuto il meglio, o la cosa più significativa al momento, bisogna sempre mediarla con il gusto del pubblico che spesso non è altro che il frutto di pigre e cattive abitudini, di atteggiamenti conservatori indotti dal mercato o dalla cultura dominante sua stretta parente.
Si vende meglio il già noto o la cosa di moda, fosse anche vestita di abiti di gusto sperimentale e avanguardistico, l’importante è che sia inserita in qualche flusso di mercato piccolo o grande e di conseguenza etichettata, incasellata!
Così però non si cresce mai, non si promuove vera conoscenza dei linguaggi musicali, che poi in ultima analisi, significa maggiori opportunità di poterne godere nelle libere infinite forme e sfumature.
Non c’è libertà come fruitori ne come produttori di musica.
Bisognerebbe inventarsi, per rispetto della musica, un festival delle musiche che abbandoni, paradossalmente, ogni criterio di vendibilità, non di gradimento di pubblico (c’è differenza) lasciando questo al suo naturale e spontaneo manifestarsi senza essere stato previsto o guidato.
Meglio ancora bisognerebbe inventarsi una “casa delle musiche” dove l’unico criterio di programmazione sia quello di dare spazio alla più ampia gamma di esperienze sonore possibili.
Unica guida in tutto questo dovrebbe essere la responsabilità dei programmatori che a rotazione se la assumerebbero unicamente condotti dalla propria sensibilità, competenza e sincera curiosità per il mondo della creatività musicale.
Difficile vero?
Tutto deve fare economia naturalmente, a partire dai costi delle strutture e dei musicisti, ma siamo sicuri che se proprio non è possibile fare uscire la musica dalle logiche economiche e di mercato non sia possibile inventarne delle nuove?
O meglio, di alternative?
Siamo sicuri che con meno pigrizia e più coraggio non si possa scoprire che tutti questi abituali processi, per la verità piuttosto logori, stantii e conservatori, non possano essere rivoluzionati portando nuova linfa al mondo della musica e alla sua cultura?
Pensiamoci. Dico così, per amore della musica, e per il rispetto che gli si deve.
Le strane unità di misura a Bologna
di Eros Drusiani3
Il bolognese non ama le unità di misure precise.
Probabilmente perché, molto prima di Einstein, aveva intuito che tutto al mondo è relativo e, per comprendersi, più che i numeri servono intelligenza e buon senso.
Così, girando per i mercati, non sentiremo mai dire un etto e venti, o un chilo e cento ma un etto e sblisga, un chilo e sblisga.
Lo sblisga infatti è un'unità di misura indefinita eppure precisissima. E' quel poco di più (o di meno) su cui nessuno obietterà mai nulla.
Se però quel poco di più è un po' più dello sblisga ecco allora che si trasforma in un po' dimondi . Se poi è ancora di più si arriva direttamente a dimondi e cioè molto (ma non necessariamente troppo). Dopo dimondi passando per il poco usato dimondi dimondi (che non è necessariamente il doppio) si arriva allo sbanderno.
Quanto misura uno sbanderno? Inutile cercare di saperlo ma se a Bologna qualcuno dice sbanderno sia che si parli di mele, di persone o di soldi tutti capiscono che è una cosa grossa.
Ma se si vuole descrivere qualcosa di esagerato che superi il concetto di sbanderno, quando si arriva al massimo oltre al quale non si può andare ecco che anche i bolognesi si piegano alla forza dei numeri.
O meglio di un numero. A Bologna infatti il massimo dei massimi si dice semplicemente “del 32”. E del 32 va bene per tutto: un caldo del 32, un freddo del 32, un casino del 32, una puzza del 32, ecc. ecc.
Ciò che è stupefacente è che dopo ricerche approfondite nell'anno 32 di ogni secolo passato l'unica cosa straordinaria che è accaduta è stata una spolverata di neve nell'agosto del 1632. Insomma nessuna catastrofe, nessun evento che giustifichi tale modo di dire. Eppure quando un qualcosa è del 32 si può essere sicuri che non vi è nulla di più grande. Il perché resterà uno dei tanti misteri di questa strana città.
Naturalmente esistono molte altre unità di misura che vengono usate in ambiti specifici perché è bene ricordarlo: i bolognesi sono sì indefiniti ma oltremodo precisi. E così ecco il fracco (principalmente per le botte ma non solo), lo sbrozzo (usato più in generale) e la mócia (per cose e persone).
Ma per far capire quanto tengano alla precisione i bolognesi ecco che si hanno unità di misura anche per un evento naturale come la pioggia. Se è molto intensa viene chiamata batedo o battello, se di breve durata e non particolarmente intensa invece squasso (e nel caso di una semplice spruzzata squassadino).
E qui c'è una strana contraddizione perché se lo squasso è l'unità di misura minore per la pioggia è invece la massima unità di misura per la pratica onanistica maschile.
Uno squasso di pugnette infatti è il numero massimo a cui può arrivare la resistenza manovellica maschile.
A che numero corrisponde? Questo è un altro mistero destinato a rimanere irrisolto.
La bomba del Rosso
di Rinaldo Falcioni4
Classe 1932, Enrico Barbieri, detto «il Rosso», vive alle pendici meridionali del colle di Monte Calderaro, poco prima della «Dogana». Vedovo da diciott’anni, i figli a Bologna, Enrico abita ormai da solo nella casa colonica che sorge sullo stesso posto di quella di famiglia rasa al suolo durante la guerra.
Prima del disastro, la comunità rurale sopra Castel San Pietro Terme era popolosa e bene ordinata secondo borgate e parrocchie. Le numerose chiese del territorio (chiese tutt’oggi in piedi, anche se magari non più frequentate o in esercizio, a causa dello spopolamento delle colline) rivelano una vita scandita per secoli nel solco della tradizione: la popolazione contadina trovava nel calendario liturgico e nella pratica dei riti religiosi il senso dello stare insieme come comunità. In particolare, la chiesa di riferimento di Enrico era San Martino, proprio sulla cima della collina di Monte Calderaro (568 m. slm). Come la borgata sottostante, l’edificio religioso uscì distrutto dagli eventi bellici che precipitarono a metà ottobre del 1944. A differenza della borgata, ricostruita praticamente uguale, la chiesa oggi è un rudere a stento riconoscibile nella sua funzione originaria.
Don Minelli era il prete che aveva cura delle anime di questa parrocchia. La sua chiesa era spaziosa, ricca di stucchi, dipinti e arredi sacri. Lo spiazzo esterno si apriva in un campetto dove i ragazzi giocavano a pallone e trascorrevano serenamente le domeniche pomeriggio. Dalla Dogana a Vezzòlo, da Cà dei Sarti alla Cavina, la gioventù locale faceva riferimento alla bella chiesa di San Martino, il cui assetto al tempo della guerra era quello della ristrutturazione di fine Seicento: nel 1939, invece, fu posato il bel pavimento geometrico di piastrelle Ovidio Vignoni. Enrico ricorda il pozzo e la conserva, adiacenti alla casa dei custodi, oltre la canonica vera e propria, sul fianco sud della chiesa.
Questo universo rurale fatto di fondi tenuti prevalentemente a mezzadria, sotto l’egida dell’antichissima Pieve di Monte Cerere, fu sconvolto dall’arrivo delle ostilità, nell’ottobre del 1944. I piani del generale Clark, comandante la Quinta Armata Usa, prevedevano lo sfruttamento decisivo della rottura del fronte eseguita a metà settembre di fianco al Passo della Futa, sul Giogo di Scarperia. Le prestigiose divisioni del II Corpo d’Armata cominciarono la loro avanzata verso Bologna e la Pianura Padana, con un ritmo apparentemente irresistibile e inarrestabile. In particolare, l’88a divisione di fanteria Usa, detta dei «Blue Devils», corse per la valle del Santerno, in direzione di Imola, giungendo a Castel del Rio in pochissimo tempo. L’esercito di Clark incontrò un primo arresto a Monte Battaglia, a seguito del quale si orientò verso ovest, per lasciare Imola al XIII corpo inglese e procedere su Castel San Pietro. Qui, tuttavia, dopo avere penetrato la valle del Sillaro e avere conquistato Monte Cerere e Monte Grande, subì il secondo arresto, proprio alle pendici del Calderaro, venendo meno alla promessa fatta all’inizio della grande offensiva di settembre: «a Bologna prima di Natale».
La contrada di Enrico Barbieri fu devastata da combattimenti tanto feroci quanto inconcludenti, perché il fronte si fermò proprio lì, per tutto l’inverno successivo. Il saliente di Monte Calderaro si presentava come una specie di ernia strozzata, attaccata al resto del fronte alleato da una sottile striscia di terreno e da una strada che ci corre(va) sopra, circondate tutt’intorno dalle truppe nemiche. Queste truppe, cioè i soldati tedeschi, non meno esausti degli americani, erano in ritirata continua ma tenacemente aggrappate a ogni collina, che difendevano a costo di perdite terribili e infliggendo perdite altrettanto crudeli agli attaccanti. Già da settembre i soldati del Terzo Reich avevano intensificato in questa zona, come altrove, l’azione antipartigiana e di contrasto ai sabotaggi. Gli aviatori alleati abbattuti erano attivamente ricercati e la popolazione era gratificata di ricompensa in caso di collaborazione e consegna dei paracadutati - e minacciata di rappresaglia nel caso li nascondesse ed aiutasse.
A dodici anni appena compiuti, Enrico vedeva i «soldati tedeschi a cavallo trottare verso Ca’ del Vento», in perlustrazione dei calanchi, alla ricerca di partigiani e soprattutto dell’«inglese precipitato». Ricorda il concentramento della popolazione a Vezzòlo, per minacciare di punizione coloro che avessero nascosto l’aviatore, apparentemente introvabile. Così come, appena finita la guerra, ricorda il cannone minato in mezzo alla strada per Vedriano, che costò la vita a quattro suoi conoscenti che tentavano di spostarlo. Ma soprattutto è indelebile il ricordo della bomba d’aereo americana, una G.P. (general purpose bomb) da 250 libbre, che, sganciata con ogni probabilità da un P-47 (il potente cacciabombardiere Thunderboldt) sfondò il tetto di casa e si piantò verticale, senza esplodere, nel cassone della farina, in cucina. La famiglia, che viveva rifugiata in cantina e nel fienile, dovette poi ritirarsi dietro le linee, sospinta dai fanti americani dell’88a divisione, che presero il posto dei tedeschi fra le mura di casa. Enrico ricorda tutti gli inquilini «tedeschi, americani, inglesi» che si avvicendarono nella borgata, sempre più ridotta in macerie, finché la famiglia fu trasferita dietro San Clemente.
Il rientro a casa, nel giugno del 1945, significò anzitutto la rimozione della G.P., ancora al suo posto, nella cucina ridotta in macerie – come il resto della casa. La bomba fu rovesciata, legata con delle funi e trascinata fuori del perimetro dei muri; poi fu fatta rotolare fino al fosso della strada, in attesa degli artificieri. Il «Rosso» ricostruì con i parenti la casa, poi la borgata e ancora oggi riceve i visitatori nella cucina dove il camino, quasi sempre acceso, fronteggia la parete dove stava il cassone, quindi la bomba, che lui continua a indicare con una specie di orgoglio. Alla sua età lavora ancora i campi e tiene gli animali da cortile: fino a qualche anno fa aveva anche un paio di vacche. Tutt’oggi, lungo le pendici del Calderaro, passando con l’erpice tirato da un cingolato Fiat, scopre una 75 inesplosa, urta un illuminante da 2 pollici o un caricatore di Garand. Con pazienza e filosofia contadina, raccoglie questi «ferri vecchi», in attesa di consegnarli alle autorità preposte alle bonifiche. Accoglie poi con simpatia i viandanti che si fermano in visita, offrendo loro castagne e uova fresche con la sua immutata disponibilità a ricordare i lontani tempi della «fame, della distruzione e della bomba nel cassone».
Tiziano Barbieri, laureato con lode presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna; musicista professionista, ha suonato, tra gli altri, con Lucio Dalla, Francesco Guccini, Ornella Vanoni e Paolo Conte. Come solista ha pubblicato tre album per l’etichetta Virgin. Sul versante dell’organizzazione, ha diretto la produzione di Vinicio Capossela, Caetano Veloso, Ivano Fossati, Fiorella Mannoia.
Marco Coppi, diplomato in flauto presso il Conservatorio GB Martini di Bologna. Direttore artistico delle manifestazioni internazionali di musica “Paradiso Jazz” e “Porretta Prog Festival”.
Eros Drusiani, attore e autore. Ha scritto decine di spettacoli per sé e per altri. Autore televisivo e radiofonico (Rai Radio Due, Rai Tre, Rai Uno, Canale 5, ecc.). Ha pubblicato una decina di libri e da anni si occupa di organizzazione di eventi e spettacoli.
Rinaldo Falcioni è nato a Bologna nel 1954. E’ direttore scientifico dell’Università Primo Levi di Bologna.