di Rinaldo Falcioni1
Classe 1932, Enrico Barbieri, detto «il Rosso», vive alle pendici meridionali del colle di Monte Calderaro, poco prima della «Dogana». Vedovo da diciott’anni, i figli a Bologna, Enrico abita ormai da solo nella casa colonica che sorge sullo stesso posto di quella di famiglia rasa al suolo durante la guerra.
Prima del disastro, la comunità rurale sopra Castel San Pietro Terme era popolosa e bene ordinata secondo borgate e parrocchie. Le numerose chiese del territorio (chiese tutt’oggi in piedi, anche se magari non più frequentate o in esercizio, a causa dello spopolamento delle colline) rivelano una vita scandita per secoli nel solco della tradizione: la popolazione contadina trovava nel calendario liturgico e nella pratica dei riti religiosi il senso dello stare insieme come comunità. In particolare, la chiesa di riferimento di Enrico era San Martino, proprio sulla cima della collina di Monte Calderaro (568 m. slm). Come la borgata sottostante, l’edificio religioso uscì distrutto dagli eventi bellici che precipitarono a metà ottobre del 1944. A differenza della borgata, ricostruita praticamente uguale, la chiesa oggi è un rudere a stento riconoscibile nella sua funzione originaria.
Don Minelli era il prete che aveva cura delle anime di questa parrocchia. La sua chiesa era spaziosa, ricca di stucchi, dipinti e arredi sacri. Lo spiazzo esterno si apriva in un campetto dove i ragazzi giocavano a pallone e trascorrevano serenamente le domeniche pomeriggio. Dalla Dogana a Vezzòlo, da Cà dei Sarti alla Cavina, la gioventù locale faceva riferimento alla bella chiesa di San Martino, il cui assetto al tempo della guerra era quello della ristrutturazione di fine Seicento: nel 1939, invece, fu posato il bel pavimento geometrico di piastrelle Ovidio Vignoni. Enrico ricorda il pozzo e la conserva, adiacenti alla casa dei custodi, oltre la canonica vera e propria, sul fianco sud della chiesa.
Questo universo rurale fatto di fondi tenuti prevalentemente a mezzadria, sotto l’egida dell’antichissima Pieve di Monte Cerere, fu sconvolto dall’arrivo delle ostilità, nell’ottobre del 1944. I piani del generale Clark, comandante la Quinta Armata Usa, prevedevano lo sfruttamento decisivo della rottura del fronte eseguita a metà settembre di fianco al Passo della Futa, sul Giogo di Scarperia. Le prestigiose divisioni del II Corpo d’Armata cominciarono la loro avanzata verso Bologna e la Pianura Padana, con un ritmo apparentemente irresistibile e inarrestabile. In particolare, l’88a divisione di fanteria Usa, detta dei «Blue Devils», corse per la valle del Santerno, in direzione di Imola, giungendo a Castel del Rio in pochissimo tempo. L’esercito di Clark incontrò un primo arresto a Monte Battaglia, a seguito del quale si orientò verso ovest, per lasciare Imola al XIII corpo inglese e procedere su Castel San Pietro. Qui, tuttavia, dopo avere penetrato la valle del Sillaro e avere conquistato Monte Cerere e Monte Grande, subì il secondo arresto, proprio alle pendici del Calderaro, venendo meno alla promessa fatta all’inizio della grande offensiva di settembre: «a Bologna prima di Natale».
La contrada di Enrico Barbieri fu devastata da combattimenti tanto feroci quanto inconcludenti, perché il fronte si fermò proprio lì, per tutto l’inverno successivo. Il saliente di Monte Calderaro si presentava come una specie di ernia strozzata, attaccata al resto del fronte alleato da una sottile striscia di terreno e da una strada che ci corre(va) sopra, circondate tutt’intorno dalle truppe nemiche. Queste truppe, cioè i soldati tedeschi, non meno esausti degli americani, erano in ritirata continua ma tenacemente aggrappate a ogni collina, che difendevano a costo di perdite terribili e infliggendo perdite altrettanto crudeli agli attaccanti. Già da settembre i soldati del Terzo Reich avevano intensificato in questa zona, come altrove, l’azione antipartigiana e di contrasto ai sabotaggi. Gli aviatori alleati abbattuti erano attivamente ricercati e la popolazione era gratificata di ricompensa in caso di collaborazione e consegna dei paracadutati - e minacciata di rappresaglia nel caso li nascondesse ed aiutasse.
A dodici anni appena compiuti, Enrico vedeva i «soldati tedeschi a cavallo trottare verso Ca’ del Vento», in perlustrazione dei calanchi, alla ricerca di partigiani e soprattutto dell’«inglese precipitato». Ricorda il concentramento della popolazione a Vezzòlo, per minacciare di punizione coloro che avessero nascosto l’aviatore, apparentemente introvabile. Così come, appena finita la guerra, ricorda il cannone minato in mezzo alla strada per Vedriano, che costò la vita a quattro suoi conoscenti che tentavano di spostarlo. Ma soprattutto è indelebile il ricordo della bomba d’aereo americana, una G.P. (general purpose bomb) da 250 libbre, che, sganciata con ogni probabilità da un P-47 (il potente cacciabombardiere Thunderboldt) sfondò il tetto di casa e si piantò verticale, senza esplodere, nel cassone della farina, in cucina. La famiglia, che viveva rifugiata in cantina e nel fienile, dovette poi ritirarsi dietro le linee, sospinta dai fanti americani dell’88a divisione, che presero il posto dei tedeschi fra le mura di casa. Enrico ricorda tutti gli inquilini «tedeschi, americani, inglesi» che si avvicendarono nella borgata, sempre più ridotta in macerie, finché la famiglia fu trasferita dietro San Clemente.
Il rientro a casa, nel giugno del 1945, significò anzitutto la rimozione della G.P., ancora al suo posto, nella cucina ridotta in macerie – come il resto della casa. La bomba fu rovesciata, legata con delle funi e trascinata fuori del perimetro dei muri; poi fu fatta rotolare fino al fosso della strada, in attesa degli artificieri. Il «Rosso» ricostruì con i parenti la casa, poi la borgata e ancora oggi riceve i visitatori nella cucina dove il camino, quasi sempre acceso, fronteggia la parete dove stava il cassone, quindi la bomba, che lui continua a indicare con una specie di orgoglio. Alla sua età lavora ancora i campi e tiene gli animali da cortile: fino a qualche anno fa aveva anche un paio di vacche. Tutt’oggi, lungo le pendici del Calderaro, passando con l’erpice tirato da un cingolato Fiat, scopre una 75 inesplosa, urta un illuminante da 2 pollici o un caricatore di Garand. Con pazienza e filosofia contadina, raccoglie questi «ferri vecchi», in attesa di consegnarli alle autorità preposte alle bonifiche. Accoglie poi con simpatia i viandanti che si fermano in visita, offrendo loro castagne e uova fresche con la sua immutata disponibilità a ricordare i lontani tempi della «fame, della distruzione e della bomba nel cassone».
E’ una parte del libro “L’avventura del Calderaro”, ed. Pendragon, p. 58. Ulteriormente modificato è apparso anche su “Di guerra e di genti. Cento racconti della Linea Gotica”, ed. Pendragon, dove è il racconto n° 54, p. 296.
Rinaldo Falcioni è nato a Bologna nel 1954. E’ direttore scientifico dell’Università Primo Levi di Bologna.
La CICALA di Orno è la vetrina privilegiata delle iniziative dell’Associazione ORNO TEATRO, con i frequenti rimandi al sito dell’Associazione e al proprio canale YouTube, dove sarà possibile seguire, vivere e condividere gli eventi che organizziamo.